A sostenerlo fu Matteo, figlio del deputato socialista, in un’intervista del 1985...
La mattina del 12 giugno 1924, sui giornali di tutt’Italia, comparve
il primo annuncio della scomparsa di Giacomo Matteotti, rapito due
giorni prima sul Lungotevere Arnaldo da Brescia in Roma, poco lontano
dalla sua abitazione al numero 21 di via Pisanelli, da una banda di
squadristi (la Ceka del Viminale) composta da Amerigo Dumini, Giuseppe
Viola, Augusto Malacria, Albino Volpi e Amleto Poveromo. Cominciò per il
fascismo la più grave delle crisi. Soprattutto dopo il ritrovamento
della salma (il 16 agosto nel bosco della Quartarella a 23 chilometri da
Roma) molti fascisti si tolsero il distintivo dall’occhiello,
strapparono le tessere e la pubblica opinione prese a guardare con
simpatia le opposizioni che, con sconsiderato autolesionismo, avevano
però abbandonato la Camera nella sterile “secessione aventiniana”.
I dubbi di De Felice sulla colpevolezza del “duce”. Secondo la
vulgata della storiografia postbellica, il mandante del delitto fu
Mussolini, come anche sostiene Mauro Canali nel suo ampio saggio Il
delitto Matteotti (Il Mulino 1997). Il 31 maggio - dopo un acceso
intervento del deputato socialista alla Camera contro il clima di
violenza in cui si erano svolte le elezioni del 6 aprile conferendo la
maggioranza al “listone” fascista – il “duce” era furente. “Cosa fa
questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo non dovrebbe più circolare
”,
pare avesse detto. Renzo De Felice tuttavia mai credette che fosse il
mandante del delitto.
La tesi di una “lezione” da dare a Matteotti (morto all’improvviso
per le percosse durante il rapimento come verrà sostenuto durante un
processo-farsa a Chieti nel 1926) gli parve controproducente per
Mussolini, “troppo buon tempista, troppo buon politico per non
rendersene conto. È possibile pensare che, se anche avesse impartito
l’ordine, in undici giorni la collera non gli sarebbe sbollita e non si
sarebbe reso conto delle conseguenze politiche di un simile atto?”.
Mussolini aveva fatto bastonare Giovanni Amendola e Piero Gobetti, ma
non era un assassino: ne era convinto lo stesso Benedetto Croce che, il
24 giugno, fu il promotore del voto di fiducia al governo. Per di più,
precisava De Felice, Mussolini si stava apprestando a un’apertura a
sinistra, in un governo lib-lab in cui portare il “popolare” Filippo
Meda alle Finanze; Argentina Altobelli all’Agricoltura; il genovese
Lodovico Calda (amministratore del quotidiano socialista “Il Lavoro”) o
il sindacalista Alceste De Ambris all’Assistenza sociale; e addirittura
lo stesso Amendola, qualora avesse accettato, all’Istruzione. Né vi
avrebbe escluso i confederali della CGdL (Confederazione Generale del
Lavoro) per staccarli dai comunisti com’era risultato evidente, il 7
giugno 1924, dal suo discorso alla Camera.
Tangenti sul petrolio a importanti uomini del fascismo. Sempre
secondo De Felice, il movente del delitto doveva essere un altro:
sopprimere Matteotti per sottrargli documenti da lui raccolti, e che
avrebbe divulgato l’11 giugno alla Camera, su loschi affari petroliferi
che coinvolgevano influentissime personalità del fascismo cui una
società petrolifera americana, la Sinclair, aveva versato “tangenti”
pari a 150 milioni per ottenere in esclusiva i diritti delle ricerche
in Italia. Essi erano: Emilio De Bono, comandante della PS e della MVSN
(Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale); il sottosegretario agli
Interni Aldo Finzi (destinato a morire alle Fosse Ardeatine); il
segretario amministrativo del PNF Giovanni Marinelli (finirà fucilato il
13 gennaio 1944 a Verona con gli altri “traditori” del 25 luglio 1943,
lo stesso De Bono, Ciano, Gottardi e Pareschi); il capo ufficio stampa
della presidenza del Consiglio Cesare Rossi; il giornalista Filippo
Filippelli, direttore del “Corriere italiano” (controllato nell’assetto
proprietario da Finzi). Per di più, uccidendo il deputato socialista,
essi avrebbero impedito quell’”apertura a sinistra” che li avrebbe
comunque travolti.
Il movente secondo Matteo Matteotti: il re e la Sinclair. Seguendo
questa duplice pista, Matteo Matteotti ebbe via via nuovi elementi, sull
cui base finì per convincersi che il principale mandante del delitto,
attraverso De Bono, poteva essere il re, per via d’interessi petroliferi
correlati sempre al gruppo Sinclair. Nell’intervista che, grazie a De
Felice, mi rilasciò nel novembre 1985 per “Storia Illustrata”, mi
spiegò che ricevette da Giancarlo Fusco un articolo da questi pubblicato
il 2 gennaio 1978 su “Stampa sera”.
Precisandomi: “Nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta
raccontò a un gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in
Inghilterra [del viaggio riferirono i giornali dell’epoca] dove fu
ricevuto, come massone d’alto grado, dalla Loggia The Unicorn and the
Lion. E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della
Sinclair, ditta americana associata all’Anglo Persian Oil, la futura BP,
esistevano due scritture private. Dalla prima risultava che Vittorio
Emanuele III, dal 1921, era entrato nel register degli azionisti senza
sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno del re a
mantenere il più possibile ignorati (covered) i giacimenti nel Fezzan
tripolino e in altre zone del retroterra libico”. In relazione alla
prima scrittura privata, Matteo Matteotti aggiunse che essa faceva
comprendere come fosse “passato” tanto rapidamente il RDL sullo
sfruttamento da parte della Sinclair del petrolio reperibile nel
territorio italiano, in Emilia e in Sicilia. Si trattava del RDL n.677,
in data 4 maggio 1924,nel quale l’articolo primo afferma: ‘È approvata e
resa esecutiva la convenzione stipulata nella forma di atto pubblico,
numero di repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il ministero
dell’Economia nazionale [presieduto da Corbino] e la Sinclair
Exploration Company’. Le firme sono quattro: Vittorio Emanuele, Corbino,
De Stefani, Ciano”.
Una clausola del 1923: non cercare petrolio in Libia.
I contenuti dell’accordo – noto come “convenzione Sinclair -Corbino” -
erano stati ampiamente enfatizzati il 15 maggio da un perentorio
comunicato della presidenza del Consiglio, ovvero redatto da Rossi
(mentre Mussolini stava inaugurando in Roma la conferenza internazionale
sull’emigrazione dopo aver trascorso l’ultima settimana in Sicilia), e
poi illustrati, il 16 maggio, sul “Corriere italiano” da quella buona
lana, si fa per dire, di Filippelli. Tuttavia, nonostante la firma del
re, Mussolini – che già nel febbraio 1924 pur aveva avocato a sé ogni
decisione in proposito - congelò tutto. E il 20 novembre 1924
incaricherà una Commissione che, valutati attentamente i termini
dell’accordo con la Sinclair, il 4 dicembre lo invaliderà totalmente
anche per uno scandalo che, negli Usa, stava per travolgerne il
titolare, Harry Sinclair. Era poco esperto di petrolio, Mussolini: si
fidava di quanto scriveva lo stesso Luigi Einaudi (sulla convenienza di
comprare l’”oro nero” all’estero piuttosto che spendere milioni per
cercarlo): perciò non lo insospettì una singolare clausola apposta in
una relazione governativa del 19 luglio1923 dove, pur invocando la
necessità di effettuare trivellazioni nelle Colonie, escludeva proprio
la Tripolitania.
Un delitto premeditato e le prove su De Bono. “De Bono volò da
Vittorio Emanuele III” mi disse Matteo Matteotti “a raccontargli quanto
Matteotti aveva scoperto, e i due si accordarono sulla necessità di
ucciderlo anziché bastonarlo soltanto e di asportare dalla sua borsa i
famigerati documenti. L’8 giugno De Bono convinse Dumini ad eseguire
tutto ciò, mediante una somma di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu
rapito e assassinato. Né si sentì più parlare dei documenti riguardanti
il patto fra il re e la Sinclair. Mio padre venne ucciso in modo
premeditato con tre colpi di lima da Amleto Poveromo. Me lo confessò,
piangente e pentito, Poveromo in persona nel carcere di Parma dov’ero
andato a trovarlo nel gennaio 1951, poco prima della morte di lui. Mio
padre aveva con sé quei documenti, che sparirono nel nulla”. Essi
vennero presi in consegna da Dumini (lo dichiarerà lui stesso ai giudici
nel secondo processo a Roma l’8 febbraio 1947) e finirono in mano di
De Bono, come dimostra il testo registrato di una conversazione
telefonica di questi con il questore di Roma, Bertini, la sera del 12
giugno subito dopo l’arresto, nella stazione della capitale, dello
stesso Dumini.
Un’ulteriore prova in tal senso la fornì De Felice, pubblicandola.
Essa consiste in una “riservatissima” relazione di polizia consegnata
allo stesso De Bono il 14 giugno 1924, ma con il tono di comunicargli
cose che lui già conosceva. Lo informava del fatto che “l’on. Turati
sarebbe in possesso di parte dei documenti originali e di parte delle
fotografie di altri che possedeva il Matteotti e riguardanti affari
diversi (’Sinclair’; speculazioni borsistiche; case di giuoco ed un
‘affare’ di Udine)”, aggiungendo che “il Comm. Filippelli – del
“Corriere italiano” avrebbe concorso alla soppressione del Matteotti
volendo rendere un servizio a S.E.Finzi ed al Fascismo”.
La vera colpa di Mussolini: il processo-farsa del 1926.Informato del
delitto da De Bono l’11 giugno: “Stanno gettandoti addosso le
responsabilità”, Mussolini rispose: “Questi vigliacchi mi vogliono
ricattare!”.
Il ricatto consisteva nell’impedirgli proprio quel nuovo governo di
svolta a sinistra , mettendolo alla mercè dell’estremismo squadrista che
lui intendeva liquidare, ma sul quale invece avrebbe dovuto almeno
temporaneamente riappoggiarsi per non essere spazzato via dalle
opposizioni e dalla pubblica opinione. Il 14 giugno destituì Rossi e
Finzi, costrinse alle dimissioni Corbino.
Quanto a De Bono - ”quadrumviro”, senatore e troppo vicino al re -
non poté liberarsene del tutto, ma lo esautorò da ogni incarico. La sua
colpa sta nell’avere tollerato il processo-farsa istruito a Chieti dal
16 al 24 marzo 1926: Dumini, difeso da Farinacci, ebbe con Volpi e
Poveromo 5 anni, 11 mesi e 20 giorni di reclusione, di cui 4 anni
condonati per amnistia, mentre Malacria e Viola furono assolti.
Parimenti assolto, ma da una commissione istituita in Senato, fu De
Bono. Delle carte di Matteotti, nessuna traccia.
Un documento di Matteotti ritrovato dal figlio nel 1978. Tra queste
carte, mi precisò ancora Matteo Matteotti, c’era verosimilmente il testo
manoscritto, su carta intestata della Camera dei Deputati, di un suo
articolo pubblicato sulla rivista romana “Echi e Commenti” del 5 giugno
1924, ma in edicola due giorni dopo.
“L’articolo” mi disse “contiene riferimenti, brevissimi, a bische e
petroli. Ne ignoravo l’esistenza. Due mesi dopo l’uscita dell’articolo
di Fusco, giornalista che a volte le sparava grosse ma che in questo
caso nessuno s’è mai peritato di smentire, ecco saltare fuori quello
scritto di mio padre.
Con una procedura a dir poco singolare, me lo fece trovare nel marzo
1978, dentro un tubo di stufa in aperta campagna a Reggello presso
Firenze, un anziano mutilato di guerra, Antonio Piron. Senza essere sino
in fondo espicito, mi disse che gliel’aveva consegnato un
ex-partigiano, ch’era a Dongo il 27-28 aprile 1945″. Matteo Matteotti
mi pregò di omettere dall’intervista questo particolare che pure
precisò, nel novembre 1985 a Segrate, anche a Giordano Bruno Guerri,
allora direttore di “Storia illustrata”. E aggiunse: “Ciò mi convinse
del fatto che quel manoscritto doveva essere nella grossa busta che, con
le compromettenti carte di cui ho detto, mio padre (mia madre Velia se
ne ricorda benissimo) aveva con sé al momento del rapimento”. Matteo
Matteotti – deputato costituente, parlamentare dl PSDI di Saragat e più
volte ministro - esercitò al possibile la propria influenza per
ulteriori indagini. Ai primi del novembre 1985 – sempre in presenza di
Giordano Bruno Guerri - aggiunse particolari che non mi aveva precisato:
e cioè la verifica di persona, recandosi a Londra in quel 1978, sulla
veridicità di quanto aveva scritto Fusco ( e poi ribadito da Giorgio
Spini in un articolo, di cui già m’aveva consegnato il testo, inviato
alla “Stampa” ma mai pubblicato). Quanto alle carte del padre, sempre
gli rimnasero irreperibili.
La sparizione delle carte Matteotti il 28 aprile 1945 a Dongo. Esse
però esistevano, senz’ombra di dubbio. In proposito ci sono una
testimonianza indiziaria e una prova fotografica. La testimonianza me la
rilasciò (incidentalmente: ero andato a trovarlo a Bergamo nel 1975 a
proposito di Galeazzo Ciano) Alessandro Minardi. Egli era stato l’unico
giornalista ammesso alle udienze del processo di Verona (8-10 gennaio
1944) contro i “traditori del 25 luglio”: mi disse nel 1975 che i due
fascicoli sul delitto Matteotti, rinvenuti in una grossa borsa di
Mussolini al momento dell’arresto (27 aprile 1945), erano verisimilmente
quelli sottratti da De Bono. Questi, a sua volta arrestato il 4 ottobre
1943 – secondo una confidenza di Pavolini allo stesso Minardi, che per
l’appunto me la riferì nel 1975 – aveva preso con sé i suddetti
documenti di Matteotti. E, nell’inutile tentativo di salvarsi la vita,
li avrebbe consegnati a Mussolini: nella cui borsa, a Dongo, furono
comunque rinvenuti. E ora la prova: essa consiste nella fotografia del
verbale di consegna di quei due dossier sul delitto Matteotti: una
fotografia (poi pubblicata sul “Tempo illustrato” il 16 giugno 1962)
che funzionari della prefettura di Milano il 2 maggio 1945 pretesero
dagli emissari governativi che avevano chiesto gli stessi dossier. Essi
però mai sono stati versati, come gli altri che Mussolini aveva con
sé, all’Archivio centrale dello Stato. Scrisse De Felice: “Senza esito
sono riuscite le ricerche da noi [cioè De Felice] compiute al ministero
degli Interni per rintracciarli”. In definitiva, sparirono.
Un mistero che dura da 58 anni. Quali sono i motivi di tale
occultamento che quasi equivale, per Mussolini, a un “mandato di non
colpevolezza”? Perché, infatti, quelle carte sparirono? E perché mai
continuano a essere irreperibili? Per coprire che cosa, e chi?
Ipotizzando ch’esse contengano elementi di condanna per Mussolini quale
mandante del delitto, perché non sono allora saltate fuori? E perché
almeno oggi il governo non si decide a renderle note? Infine, se non le
si trova, chi ebbe interesse a occultarle, forse a distruggerle?
Seppellendole alle Botteghe Oscure, a “silenziarle” fu forse il ministro
della Giustizia Palmiro Togliatti, l’uomo che addirittura, con la
complicità di Giulio Einaudi, volle censurare l’opera di Gramsci? Oppure
esse vennero fatte pervenire a Umberto di Savoia (assieme al dossier
che lo riguardava, intitolato a “Stellassa” e alle privatissime sue
faccende sessuali, rinvenuto in un’altra borsa di Mussolini)? Sono tutte
domande che attendono risposta: su quel delitto i lati oscuri
continuano a essere troppi...
FONTI: http://guide.supereva.it/alleanza_nazionale/interventi/2003/05/134356.shtml
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